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CHE DISGRAZIA
L'AI!

CHE DISGRAZIA L'AI!

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Un’esplorazione dell’impatto dell’intelligenza artificiale sul coaching professionale, tra opportunità evolutive, rischi etici e l’irriducibile valore della relazione umana.

Negli anni Venti dell’800, il celeberrimo drammaturgo Aleksandr Sergeevič Griboedov in “Горе от ума” (in Italia noto col titolo “Che disgrazia l’ingegno!”, che tradurrei letteralmente in “I guai che provengono dall’intelligenza”) affermava “La mente è un dono, ma un dono scomodo”.

Esattamente duecento anni dopo, all’ingegno e alla mente di ognuno di noi se ne sono aggiunti altri: quelli propri dell’intelligenza artificiale. E la disgrazia aumenta… 😉

Oggi voglio fare qualche riflessione su come il mondo del coaching professionale stia venendo modificato, influenzato, toccato dalla trasformazione in atto generata dall’AI. Quotidianamente, assistiamo alla proliferazione di chatbot motivazionali, assistenti virtuali in grado non solo di fornire risposte, ma anche di porre domande, tracciare obiettivi e fornire feedback più o meno personalizzati. Ma quanto uno strumento si può avvicinare alla funzione del coach?

Osservo questa dinamica con la doppia lente di coach e ingegnere, che mi fornisce due prospettive apparentemente distanti ma, in realtà, complementari: da un lato, l’ammirazione per la potenza computazionale, le capacità predittive e l’acceleratissimo (non lineare) miglioramento direi quotidiano dei sistemi AI; dall’altro, la profonda consapevolezza che il coaching autentico non è altro che una relazione UMANA, trasformativa, intima, professionale, consapevole.

È evidente che gli strumenti basati su AI possano offrire valore, rendendo il coaching più accessibile, più scalabile, più economico, per esempio sostenendo la riflessione individuale, favorendo la definizione degli obiettivi e fornendo un primo livello di dialogo evolutivo e riflessivo a chi non ha la possibilità di ingaggiare un coach umano. Penso soprattutto agli studenti, ai giovani, a coloro che hanno redditi bassi.

Tuttavia, c’è una dimensione del coaching che nessuna intelligenza artificiale, per quanto sofisticata, riesce – almeno al momento e credo non solo al momento – a replicare: la qualità della presenza. Il coach non è per niente un “domandatore seriale” (cosa a cui mi sembra che gli attuali sistemi di coaching AI stiano mirando), ma il partner che accoglie il silenzio; che coglie le emozioni e le Voci dietro le parole, le intonazioni, i movimenti del corpo, le energie; che regola la propria postura interna per creare un campo relazionale generativo; che alterna sapientemente cuore e spina dorsale; che espone se stesso, la propria professionalità, ma anche la propria sensibilità e storia per co-creare significato.

Inoltre, la relazione di coaching si fonda su un patto fiduciario, che richiede integrità, responsabilità e confini chiari. Quando l’interlocutore è un algoritmo, a chi è attribuibile questa responsabilità? Su quali basi può fondarsi la fiducia? E fiducia verso chi, specificamente? E tutto ciò che ci si confida in quale mare magnum (sorry: big data…) va a confluire? E come, dove, quando, da chi sarà utilizzato? La riservatezza, ricordiamolo, rappresenta il primo dei pilastri del coaching professionale.

Le domande, quindi, possono anche partire da quesiti prettamente tecnici, ma approdano immancabilmente su un terreno squisitamente etico. Per fortuna, aggiungo io.

Eppure, non dobbiamo temere l’intelligenza artificiale, reagendo alla paura con chiusura, negazione, snobismo, corsa stolida o veemente aggressione. Come ogni tecnologia, l’AI è neutra: è l’uso che NOI ne facciamo a determinarne l’impatto. Se affrontata con consapevolezza, l’AI può diventare una preziosa risorsa per noi coach professionisti, sostenendoci nell’elaborazione, nel monitoraggio, nella sistematizzazione dei percorsi; penso soprattutto agli interventi di group coaching e team coaching, che possiedono una dimensione di progettazione. Senza ovviamente darle MAI in pasto le conversazioni, che devono restare assolutamente confidenziali. In tal modo, l’AI ci può liberare del tempo per studiare e aggiornarci, automatizzando anche operazioni amministrative, che ci assorbono varie ore a settimana, nonostante non rappresentino il core del nostro mestiere. Vista da questa prospettiva, l’AI può essere un alleato, che ci aiuta a restare focalizzati su ciò che rende il coaching davvero significativo.

Insomma, è mio convincimento che il rischio non sia costituito dall’uso dell’AI in sé, ma dalla combinazione della nostra reattività e della banalizzazione dell’esperienza trasformativa, che può implicitamente trasmettere il concetto che un viaggio trasformativo e maieutico si possa ridurre a una sequenza lineare di stimoli e risposte, che aggiri l’ambiguità, il dubbio, la complessità, l’interiorità. Per questo, credo che il futuro del coaching non sarà determinato da una contrapposizione tra umano e artificiale, ma da una rinnovata alleanza tra tecnologia e consapevolezza, frutto di intelligente, responsabile, consapevole, creativa integrazione con la nostra amatissima professione.

 

L’intelligenza artificiale è come l’elettricità: neutra, ma capace di bruciare o illuminare.

Peter Norvig

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Immagine di Gianfranco Nocilla

Gianfranco Nocilla

Master Certified Coach MCC
Team Coach ACTC
Executive & Transition Coach
Voice Dialogue Facilitator

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