
Che disgrazia l’AI!
Un’esplorazione dell’impatto dell’intelligenza artificiale sul coaching professionale, tra opportunità evolutive, rischi etici e l’irriducibile valore della relazione umana.
PAROLE SULLE SPALLE
La seguente parabola zen è molto nota: due monaci, in viaggio, arrivano in prossimità di un fiume impetuoso, sulla cui riva c’è una giovane donna avvenente (avvenente l’ho aggiunto io; mi piace…), impaurita dalle onde.
Senza esitazione, il più anziano dei due monaci si offre di accompagnarla sull’altra sponda del fiume, issandosela sulle spalle; così fa, dopodiché, senza un saluto, i due proseguono il loro cammino solitario e silenzioso. Dopo molte ore, il monaco più giovane, ancora turbato dall’episodio, sbotta: “Fratello mio, perché hai preso sulle spalle quella ragazza? Ci è vietato ogni contatto con le donne!”. E l’altro, calmo: “Io l’ho lasciata sulla riva del fiume ore e ore fa; tu, invece, te la stai ancora portando addosso.”
Dove voglio arrivare? Quante volte sento clienti, conoscenti e amici utilizzare parole che appartengono al passato, appiccicandosele addosso e alla visione che hanno di sé, di fatto perpetuando quel passato? Non esagero: quasi quotidianamente. Anche io, d’altronde, tendevo a farlo, fino a che un mio maestro non me lo fece notare e, soprattutto, mi illustrò l’effetto nefasto di questa abitudine.
Parlo di persone che si definiscono “sopravvissute”, che si definiscono “tradite”, “povere”, che si definiscono “depresse” o “malate”, anche dopo anni dagli episodi di depressione maggiore. Siamo tutti sopravvissuti, ma anche rinati, trasformati, evoluti; siamo stati tutti traditi, ma anche riconosciuti, sostenuti, difesi, accompagnati; siamo tutti poveri rispetto a Musk, ma ricchi se cambiamo benchmark; siamo tutti malati, senza alcuna distinzione, ma anche sani, energici, fiorenti, vitali…
Alcuni mesi fa una conoscente mi ha tolto il saluto, dopo che le avevo corretto un “Io e te siamo due sopravvissuti” con “Sopravvissuto un piffero, io sono un costruttore…”. [non avevo detto piffero, però!]
Le parole possono essere finestre o muri – come ci ricorda Rosenberg –, ci possono ancorare al passato o proiettare verso il futuro, far progettare il futuro. Le parole che diciamo e ancora di più che CI diciamo sono formule magiche, abracadabra che evocano la realtà che abitiamo, la rafforzano, la rendono più solida.
Se continuiamo a ripetere “sono un sopravvissuto”, quel servitore fedele che è il nostro cervello continuerà a ricordare l’evento disastroso, a vederci nel disastro, trovando conferme, similitudini e paralleli ovunque. E ignorerà tutto il resto, come succede con i pregiudizi: il meccanismo è il medesimo.
Se, invece, di proposito cambiamo lessico e scegliamo parole di possibilità, di potenzialità, il racconto di noi stessi cambia, e con esso il nostro modo di stare al mondo. “Sì, ma sono stato tradito”, “Sì, ma mi è capitato un disastro”: mica lo nego! Anzi: ricordiamolo per riconoscerci un livello più alto di resilienza. Non lo nego, ma permetto al tradimento o al disastro di DEFINIRMI; è come arrivare sulla riva e lasciare lì la donna o continuare a pensarci, a rimuginare.
Ti invito a un piccolo esperimento: ascolta le parole con cui ti racconti e cogli quelle che “sanno” di vecchie ferite. Poi chiediti quale lemma alternativo puoi usare, per restituirti libertà, possibilità, creatività. Non è solo un gioco grammaticale, ma un atto di trasformazione.
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Un’esplorazione dell’impatto dell’intelligenza artificiale sul coaching professionale, tra opportunità evolutive, rischi etici e l’irriducibile valore della relazione umana.
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“Sopravvissuto”, “tradito”, “povero”, “depresso”…. Cambiando il linguaggio e scegliendo parole di possibilità, possiamo trasformare il nostro racconto di noi stessi, liberandoci da vecchie ferite e proiettandoci verso il futuro con maggiore resilienza e creatività.
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