In altre parole: la strategia dei media per massimizzare il tempo di permanenza e l’engagement si sta ritorcendo contro i media stessi, avendo superato una soglia di senso e di misura. Logico e prevedibile risultato di politiche aziendali che privilegiano la cassa nel breve termine rispetto alla sostenibilità a lungo termine, generando una disconnessione tra scopo e strategia: il sistema inizia a divorare sé stesso, processo che gli utenti percepiscono intuitivamente.
Ma, ricorrendo ancora alla teoria del system thinking, sappiamo che, quando un sistema raggiunge un punto di crisi, scattano meccanismi di autoregolazione. La crescente popolarità dei due concetti qui discussi indica che ormai si è radicata una consapevolezza collettiva sul fatto che qualcosa sia andato storto e che il “sistema” non ci serve più, ma ci sfrutta. E degno di nota è che tale processo di consapevolezza nasca proprio nelle nuove generazioni (spesso vituperate e tacciate di superficialità da chi non vuole o teme un confronto), che non vogliono fuggire dal digitale, ma renderlo più vivibile, avendo interiorizzato il concetto “virtuale=reale” e considerando la salute mentale online inseparabile dal benessere complessivo.
Ovviamente, la consapevolezza è un punto di partenza e bisogna ora individuare e favorire un processo di autoregolazione, senza fermarsi a sterili lamentele e accuse di sovraesposizione alle nuove generazioni. I giovani evidentemente cercano piattaforme che rispettino gli utenti e offrano contenuti che stimolino anziché anestetizzare e sono certo che la soluzione possa provenire proprio dalla generazione Z, la più consapevole delle disfunzioni del sistema. Questa generazione, più di qualsiasi altra, chiede equilibrio, vuole un mondo connesso e non alienante e credo che giovi ricordare che chi ha creato questi sistemi e le loro derive è un manipolo di quarantenni e cinquantenni, quindi non nativi digitali.
Trattandosi di un fenomeno non generazionale, ma sistemico, il compito di ciascuno è di fare una riflessione e contribuire alla ricalibrazione dello scopo dei social media e all’individuazione di strategie che garantiscano la sostenibilità del mondo digitale a lungo termine, in un contesto in cui il confine tra reale e virtuale è completamente dissolto.
Occorre un ripensamento radicale: non possiamo semplicemente ottimizzare il sistema esistente, ma creare nuovi modelli che privilegino il benessere collettivo rispetto al profitto a breve termine. Solo così potremo uscire dalla spirale di degrado che stiamo vivendo e costruire un sistema che non solo sopravvive, ma prospera.
La sostenibilità digitale è ormai una priorità!
*: La parola “enshittification” descrive il fenomeno pervasivo per il quale una piattaforma, che inizialmente offre valore agli utenti per crescere, successivamente monetizza il traffico introducendo pubblicità e servizi a pagamento, fino a sacrificare la qualità iniziale sull’altare del guadagno. L’enshittification non è un incidente, ma il risultato logico di un modello economico che premia i guadagni a breve termine.
**: Il concetto di “brain rot” riflette il deterioramento dello stato mentale causato dall’immersione in contenuti ripetitivi e poco stimolanti. L’utente, bombardato da un flusso infinito di video brevi, meme e notifiche (peraltro talvolta generati con l’AI ma proposti come reali e/o portatori di fake news) sperimenta una riduzione della capacità di attenzione e una sensazione di vuoto intellettuale. È un effetto collaterale della progettazione stessa delle piattaforme, che puntano a catturare ogni secondo del nostro tempo libero senza offrire valore duraturo.