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“Like a rolling stone”: un colloquio interno tra un Sé più maturo e consapevole, che da oggi si sente pronto ad esprimersi, e quella parte sinora dominante che vive manovrata dagli altri. Con tutta l’energia che una tale affermazione richiede, un’energia che può essere molto utile anche a noi, ora.

Un mesetto fa ti ho voluto parlare di una canzone di Leonard Cohen, intitolata “Famous blue raincoat”. Questa settimana, voglio riprendere il filo e ragionare di un brano del suo “antagonista” storico, Bob Dylan. Sempre di applicazione di Voice Dialogue nell’arte si tratta …

“Like a rolling stone” non è una canzone, ma un tornante. Considerata da quasi sessant’anni “THE greatest song of all time” dalla rivista “The rolling stone” (il nome della testata mi ricorda proprio qualcosa …), essa ha rappresentato una rottura totale dei preesistenti canoni e paradigmi folk, rock e cantautorali.

Scritta nel 1965, “Like a rolling stone” si rivolge, con parole dure, con ritmi incalzanti, con rime martellanti a una Miss Lonely, che dal sedile di lato di una lucente Ford Mustang viene catapultata di colpo ai margini della strada.

A una bambolina viziata e viziosa, che ieri attirava sguardi ammirati di amici e conoscenti e oggi si ritrova ad elemosinare un tozzo di pane.

A una ex-principessa che non può più scambiarsi regali costosi con altre principesse (non ancora decadute?) e forse farebbe meglio ad impegnare l’ultimo anello rimasto.

Il tutto senza empatia, senza pietà, nonostante l’inizio da fiaba – un “once upon the time” da fratelli Grimm – riassunto nella durezza della domanda-refrain: 

Come ci si sente ad essere sola, senza un posto dove andare, come una completa sconosciuta, come una pietra che rotola? 

La critica ha presentato per decenni questo capolavoro come un violento j’accuse verso un determinato modo di vivere la mondanità e l’arte, arrivando ad identificare come destinataria diretta una certa Edie Sedgwick, modella e attrice, musa di Andy Warhol. Ma mi domando: è possibile pensare che l’autore di testi ineguagliabili su parità, integrazione e pace possa descrivere con toni tanto distaccati e aggressivi la caduta di una persona, per giunta individuabile?

È possibile che Bob Dylan arrivi a non mostrare alcuna solidarietà verso una vittima del sistema? Proprio lui, l’aedo della libertà, della non violenza, il ventiquattrenne che appena tre anni prima descriveva (per me meglio di Dante) l’Apocalisse causata dalla cecità e dall’avidità dell’Uomo?

No, resto un coach e non ho virato verso la critica musicale. Ti voglio parlare oggi di “Like a rolling stone” perché qualcosa non quadra. Soprattutto se si pensa che Edie Sedwick nel 1965 era ancora sulla cresta dell’onda e nulla avrebbe fatto presagire il suo funesto crollo, avvenuto alcuni anni dopo.

Quali sono la mia idea, la mia interpretazione? È che – similmente a “Famous blue raincoat” di Cohen – “Like a rolling stone”, oggi come cinquantotto anni fa, risuoni così forte nella testa e nel cuore di chi l’ascolta, e resti inarrivabile sulla vetta delle classifiche perché portatrice di un messaggio complesso, subliminale, che si muove su livelli diversi da quelli puramente razionali, letterari e cerebrali. Come dire: i neuroni comprendono le parole, le orecchie colgono la musica e il ritmo, ma l’anima riceve altro. Sì, sto parlando di Voice Dialogue… 

Cosa voglio dire? L’idea che mi sono fatto è che il Premio Nobel per la Letteratura del 2016 qui si rivolge a se stesso, ovvero a quella sua propria parte eccessiva, a quel suo essere gestito dal jet set e dai media, a quel suo modo di interpretare e subire la celebrità, che ha caratterizzato i primi anni della sua ormai più che sessantennale carriera.

E quella Miss Lonely, la tipa che si accompagna a diplomatici eccentrici con gatti siamesi sulle spalle, che frequenta l’alcool troppo da vicino è lui stesso. Ovvero una delle sue modalità. E ora, in forma di canzone, Bob Dylan dice addio a quella sua voce, a quella sua energia, per acquisire nuovi livelli di consapevolezza e di maturità.

Un nuovo Sé che non deriderà più chi lo ammonisce per gli eccessi compiuti. Un nuovo Sé che non deriderà più i matti travestiti da Napoleone. Un nuovo Sé che non delegherà presuntuosamente qualcun altro a vivere la sua vita. Un nuovo Sé, che – questo mi arriva – torna in connessione con la sofferenza, con le difficoltà, con i fallimenti, con la realtà, col dolore, con la fatica quotidiana per conquistarsi la concretezza e l’immediatezza e l’indiscutibile importanza del “next meal”, senza inseguire altri “diamond ring”.

Si tratta quindi di una vera liberazione dal giogo dell’essere una star, un idolo ad ogni costo, dal fare sempre e solo ciò che ci si aspetta da lui. Ora basta, ora Bob Dylan si sente nuovamente libero di esprimere una parte più vera di sé. E se l’addio appare rabbioso, è solo perché il tema è fortemente sentito e il testo è scritto a caldo.

In quali contesti e occasioni ti senti ingabbiato in ruoli dati per scontati dagli altri?

Quale parte, invece, vorrebbe emergere, ora?

Per dire cosa?

Per fare cosa?

Per sentire cosa?

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Gianfranco Nocilla

Gianfranco Nocilla

Master Certified Coach
Executive & Transition Coach
Voice Dialogue Facilitator

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