
Che disgrazia l’AI!
Un’esplorazione dell’impatto dell’intelligenza artificiale sul coaching professionale, tra opportunità evolutive, rischi etici e l’irriducibile valore della relazione umana.
IL CODICE DELL'ANIMA
Credo che la lettura de “Il codice dell’anima” di James Hillman non sia evitabile da parte di chi lavora, a vario titolo, nell’ambito dello sviluppo personale e professionale. Il testo, difatti, offre un approccio affascinante e moderno al concetto di talento, genius, daimon, ovvero di quella “ghianda”, che simboleggia la vocazione innata che guida ciascun individuo.
Ciò che rende l’opera godibile e coinvolgente è l’uso creativo di miti, leggende e soprattutto di decine di biografie di personaggi famosi: Hillman offre un quadro ricco di storie, che illustrano come il “daimon” possa manifestarsi, permettendo ai lettori di identificarsi con le esperienze descritte e stimolando una riflessione profonda sul proprio percorso di vita.
“Il codice dell’anima” ha anche il merito di esplorare il concetto di ecologia da una prospettiva psicologica e filosofica, ponendo l’accento sull’interconnessione tra l’anima individuale e il mondo naturale. Quindi, non mera “ecologia ambientale”, ma un’ecologia collegata all’idea stessa di “daimon”, in cui una realizzazione personale profonda è strettamente legata alla cura e alla comprensione della natura. Secondo Hillman, il disprezzo e lo sfruttamento della natura derivano da un’ignoranza profonda del nesso spirituale e psicologico che lega gli esseri umani all’ambiente, che a sua volta genera comportamenti distruttivi non solo verso l’ecosistema, ma anche verso se stessi. L’approccio di Hillman implica che la cura dell’ambiente non sia solo una responsabilità pratica, ma anche un compito spirituale e psicologico.
Partendo da questa visione allargata, sistemica, olistica della vita, della natura e del cosmo, Hillman affronta il concetto del maligno sfidando le interpretazioni e i condizionamenti moralistici e religiosi convenzionali, e arrivando a dedicare un intero capitolo alla figura di Adolf Hitler (descritto come un “cattivo seme in una personalità che non opponeva dubbi né resistenze”). Hillman non vede il male semplicemente come un’entità esterna o un’influenza negativa da evitare, ma lo integra nel processo di comprensione della psiche umana: riconoscere e affrontare il maligno è per lui essenziale per la crescita personale e la realizzazione del proprio “daimon”. Quindi, finalmente, gli aspetti oscuri della personalità, i rischi connessi agli attuali modelli sociali, professionali e di sviluppo (in cui il maligno è palesemente annidato), le “ombre” non sono visti come elementi da demonizzare, bensì come presenze da conoscere, riconoscere, individuare e, quindi, coraggiosamente evitare. Solo così, il male può portare alla trasformazione e alla maturazione dell’individuo, consentendogli un profondo sviluppo della propria consapevolezza.
Inoltre, James Hillman critica la tendenza della società moderna a medicalizzare e moralizzare il male, a cercare di eliminarlo attraverso farmaci e rigide norme morali; egli propone invece di vedere il maligno come una parte necessaria del viaggio umano, che deve essere esplorata e compresa piuttosto che soppressa. Il suo invito a non banalizzare, a non cedere alle tentazioni semplicistiche del nesso causale o diagnostico torna più e più volte nelle pagine de “Il codice dell’anima” e, per me, ciò ha rappresentato un cambio di prospettiva molto utile.
“Il codice dell’anima” è un capolavoro, quindi? No, per niente! Un libro da leggere, questo sì.
“Il codice dell’anima” presenta infatti significative limitazioni dal punto di vista scientifico: manca il benché minimo supporto scientifico e statistico. Ciò che mi ha colpito è l’assoluta arbitrarietà con cui sono state selezionate – tra i miliardi di storie umane a disposizione – le biografie alla base del modello e il fatto che, sulla base di quella scelta, l’autore sia arrivato a conclusioni lapidarie. Come un ricercatore che selezionasse i risultati di una serie di esperimenti e, sulla base del set di dati scelto, arrivasse a una teoria, che, per definizione, sarebbe pienamente e tautologicamente confermata. Non solo: le biografie di personaggi famosi, anche se fossero di numero enormemente maggiore, comunque per loro natura non costituirebbero una prova scientifica. Insomma: Hillman seleziona esempi che confermano la sua tesi e non aggiunge elementi scientifici, che possano dare solidità e permettere un contraddittorio.
Resta l’intuizione e quell’idea molto marketing della ghianda, che non è altro, però, che la semplificazione e la volgarizzazione dei concetti millenari di daimon greco e genius latino. Quindi, una lettura interessante, caratterizzata da uno sguardo acuto e non piegato a molti condizionamenti attuali, ma priva di solidità scientifica; un libro adatto più alla riflessione personale che alla ricerca accademica, che ha tutte le carte in regola per essere un long seller per qualche altra manciata di decenni.
“Sono diverso da tutti gli altri e uguale a tutti gli altri; sono diverso da quello che ero dieci anni fa e uguale a quello che ero dieci anni fa; la mia vita è un caos dotato di stabilità, è caotica e ripetitiva insieme, e io non posso sapere in anticipo quale minuscolo e insignificante bit in input produrrà effetti enormi e significativi in output. Devo rimanere sempre vivamente ricettivo verso le mie condizioni iniziali, cioè verso l’essere che è venuto al mondo con me e ogni giorno mi accompagna nel mondo. Da quell’essere rimango dipendente.”
James Hillman, “Il codice dell’anima”, 1996
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