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è stata
la mano di Dio

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Un mesetto fa scrivevo qui di quanto sia intimamente attratto da alcune scene del film “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino. Onestamente, trovo il film molto modesto: con l’eccezione del giovane protagonista, è una carrellata di personaggi più o meno grotteschi, tutti accennati, nonostante siano degni di un approfondimento psicologico per farli affrancare dallo stato di macchiette e farli accedere a un meritatissimo livello di sofferente e credibile umanità. Invece no, l’approfondimento è assente e ho l’impressione di avere tra le mani un oggetto in stagno con un nucleo d’oro, in cui l’oro è annidato proprio nell’intensità di alcune, rare scene.

Qual è la scena che mi ha subito commosso e continua a farlo, facendomi immancabilmente ricordare quella magica e inattesa rappresentazione della Medea di Euripide una caldissima notte di plenilunio al Partenone, nell’agosto 1996? Ovviamente il celebre dialogo tra Fabietto Schisa (protagonista del film e alter-ego del regista) e Antonio Capuano (regista e mentore di Sorrentino).

Una scena in cui si incontrano il popolo incarnato da Capuano e la piccola borghesia di Fabietto; il porsi sopra le convenzioni e un’educazione eseguita ancora alla lettera; la sfrontatezza e la timidezza; il vernacolo di Capuano e l’italiano corretto di Fabietto; la disincantata maturità del regista e i sogni del ragazzo; l’hic et nunc e la tentata fuga dalla realtà; un potenziale mentore e colui che si propone di fatto di diventarne il protégé.

Questo dal punto di vista statico, ma c’è anche un piano dinamico, uno svolgimento: si entra nella notte e si esce all’alba; si comincia passeggiando in un piazzale aperto sul golfo e si finisce su una spiaggetta, dopo aver attraversato un’angusta grotta ipogea; Fabietto inizialmente pensa di essere unico e solo e si scopre infine condannato ad una solitudine che accomuna ogni altro essere umano.

Potrei continuare scrivere una decina di pagine sull’argomento, così come per ore mi è capitato di parlarne con le mie amiche più care e sensibili. Ma annoierei. L’elemento su cui voglio soffermarmi oggi non è l’empatia di Capuano, dura e solo apparentemente volgare, non è la polarità libertà/coraggio, non è neanche la dicotomia tra realtà e immaginazione come ancora di salvezza. Non è il dolore come risorsa (“E allora si nu ttien ’e ppall, ti serve un dolore. ‘O tien’ nu dolor’?”), l’appello al rispetto dei valori profondi (“Non ti disunire”), la non facilmente comprensibile differenza tra solitudine e abbandono o l’impegno a non fuggire, per trovare il bello che c’è nella nostra vita (“Che cazz’ ci vai a fa a ‘stu Roma? Sul’ ’e strunz vann’ a Roma! Hai visto quante cose da raccunta’ c’ stann’ int’ a ‘sta città? Guarda, guarda…”)… No: scelgo il parto, che li sovrasta e include tutti, forse.

Sì, perché quella notte, grazie a quell’incontro, a quella lunga passeggiata, a quel dialogo durato ore, Fabietto vive un rituale arcaico di passaggio e rinasce adulto, rinasce Fabio. (Quanto sono importanti per il nostro cervello le parole che diamo a cose, persone e situazioni…)

E questo parto avviene nel ventre di Napoli, città che espelle il giovane protagonista dal suo utero, rompendo le acque salate e portandolo nel golfo, alla luce di un nuovo giorno che nasce, il suo primo giorno da adulto. Un nuova fase della vita popolata da gabbiani, dalla bellezza, dalla vastità di un golfo martoriato che dà sgomento (è reale?), ma che quasi sembra non conoscere il dolore, leit motif del dialogo e del film stesso.

Al tempo stesso, in maniera controintuitiva, Fabietto inizia il dialogo da orfano e lo termina da figlio, da figlio di Capuano, ma anche da figlio di sé stesso, avendo ormai capito che l’essere umano per sua natura è solo e che il dolore – e non la creatività vuota, senza “cos’ a dicer'”, o il divertimento – è il vero motore della vita e dell’arte. Tutto il resto è solo inganno, ma “non si può ingannare il proprio fallimento”, così come non si può andare “via veramente da ‘sta città”, simbolo della realtà. No: per Fabietto, il cinema (= la vita progettata sulla carta) non può essere un ripiego immaginario da una realtà scadente (= il contesto in cui siamo immersi). Ci vuole coraggio, bisogna avere cose da dire, bisogna essere coerenti con i propri valori, bisogna utilizzare il dolore e l’immanenza del senso di fallimento come ponti, e solo così si potrà guardare dritto a “quante cose ci sono da raccontare” attorno a noi. E vivere. Vivere bene, intendo. Vivere svegli. Vivere consapevoli.

Per vivere in maniera consapevole, senza alibi, per vivere nel presente, ci vuole coraggio, cor habeo, bisogna avere cuore.

Ebbene, il colloquio tra Fabietto e Capuano forse è reale, ma credo che sia piuttosto un magistrale esempio di “Voice Dialogue”, la trasposizione del dialogo interno tra due Sé, che si confrontano nell’animo e nella mente di Fabietto, no! di Fabio Schisa in un momento di transizione verso la vita adulta. Un Sé vittima, bambino e un po’ ribelle e un Sé paterno, realistico, protettivo, tanto attaccato alla realtà e alla vita, che al termine assume la guida, il ruolo di Sé dominante, come dimostrano la scena finale del film e la canzone scelta da Sorrentino.

Mai, sono certo che MAI ho assistito a una scena così profondamente simbolica e umana. Spero nel futuro …

“La fuga? So palliativ’ ro cazz’! Alla fine torni sempre a te, Schisa. E torni qui, torni al fallimento, p’cché è tutt’ nu falliment’, è tutta ‘na cacat’, hai capito o no? Nessuno inganna il proprio fallimento e nessuno se ne va veramente da questa città.”

Nel frattempo, ispirato, continuo ad accompagnare le transizioni dei miei coachee mediante Coaching e Voice Dialogue: contattami per saperne di più.


P.S.: Questo è il link per guardare su YouTube il dialogo di cui ho appena scritto: https://www.youtube.com/watch?v=papY6RBiVWQ 

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Gianfranco Nocilla

Master Certified Coach
Executive & Transition Coach
Voice Dialogue Facilitator

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